Just Me, Myself and I

Del latte versato

Postato il 2 Giugno 2016 in Just Me, Myself and I
C'è uno di quei proverbi antichi, tanto semplici e al contempo tanto saggi, che mi gira in testa in questi giorni: E' inutile piangere sul latte versato. Inutile, inutile, inutile crogiolarsi nell'amarezza, nel risentimento, nella tristezza per qualcosa che ormai è accaduto e che la nostra natura di abitanti della Terra, e non di viaggiatori del tempo, non ci permette di rimediare. E se questo sa una parte è vero, soprattutto se ormai il latte è stato versato anni e anni fa e di lui non rimane altro che qualche grumo sul pavimento, l'alone di una chiazza giallognola e incrostata, è anche vero che in certi casi è bene interrogarsi sul perché e soprattutto sulle implicazioni di tale avvenimento. Il proverbio ci dice una cosa chiara e tonda: è inutile, o quantomeno superfluo, chiedersi chi è stato - e di solito la colpa non è mai di uno solo -, se lo abbia fatto apposta o se sia stato un incidente. Quello che bisogna piuttosto chiedersi è: a cosa serviva quel latte? C'era qualcuno che la sera prima era andato a letto già pregustando la ricca colazione della mattina successiva per poi incappare in un'amaro risveglio?  Chi lo aveva comprato? Come era arrivato sulla nostra tavola prima del fatale incidente? Quale anelata torta di compleanno non si è riusciti a impastare a causa della sua mancanza? E ancora in quali pieghe, in quali fughe delle mattonelle, in quali anfratti è finito quel latte, rimanendovi a marcire per chissà quanto tempo? Le implicazioni di ogni avvenimento possono essere decine, centinaia, migliaia, e se anche è altamente improbabile che una farfalla che sbatte le ali a Pechino possa provocare un uragano a New York, e se è appurato che non si può porre diretto rimedio a cose ormai sono accadute, pro o contro la nostra volontà, è altrettanto vero che non porsi delle domande, sciacquare via sommariamente il latte o, peggio, lasciarlo lì a inacidire, marcire e putrefarsi non può che provocare disastri peggiori e, peggio ancora, non immediati. Muffe,crepe nel pavimento, scarafaggi, invasioni di topi, dei quali non si riesce a capire la presenza né, a volte, la portata, se non soffermandosi a guardare quell'alone rimasto sul pavimento, e tutti gli altri che si sono accumulati negli anni.

A mio padre, perché ogni tanto si ricordi di guardare la terra dove cammina prima di emettere sentenze. A me, che quando parlo per metafore non mi sopporto proprio.

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Dei padri parte n²

Postato il 1 Marzo 2016 in Just Me, Myself and I
Anche se non l'ha apertamente dichiarato, é palese che mio padre sia in una di quelle fasi test per misurare l'amore di sua figlia in cui non mi chiama mai per vedere se -e quanto- lo chiamo io. Ora mi stavo chiedendo, ma quindi adesso io sono in diritto di offendermi perché é lui a non chiamarmi mai?
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Dei vecchi semafori

Postato il 26 Febbraio 2016 in Just Me, Myself and I, Racconti
Nell'inferno degli inguaribili ottimisti, quelli che, non tanto per scelta o per logica, ma più per una condizione mentale innata e difficile da sradicare, tendono a pensare che il mondo in fondo non sia un posto poi tanto brutto dove vivere, c'è un girone speciale dedicato a quelli che non solo sono inguaribili ottimisti, ma hanno anche la testa tra le nuvole. In questo girone c'è una ragazza. Abita in un paesino fuori città, carino anche se un po' decadente. Ogni mattina esce per recarsi dal fruttivendolo, o a comprare le sigarette. Si ripete ogni giorno che prima o poi smetterà di fumare e, da inguaribile ottimista qual è, ci crede davvero. In fondo alla stradina di casa sua c'è un semaforo, l'unico nell'arco di chilometri. E' un vecchio semaforo che di solito rimane spento, per accendersi solo di quando in quando, seguendo ritmi e orari incomprensibili ai più, come un vecchio che si addormenta sulla sedia per poi risvegliarsi e affermare con determinazione che stava solo riposando gli occhi. Ha una lampadina fulminata e nell'oblò del giallo manca il vetro. E' così vecchio e scalcinato che viene risparmiato persino dai volantini, dalle disperate richieste di lavoro, o dalle vendite di una fiat uno rossa del 1991, 186000 km, sempre garage, ottimo affare. Ogni mattina la ragazza si ferma davanti al semaforo, preme il pulsante per l'attraversamento pedonale, e aspetta. Ha la testa nel telefono o persa in chissà quale nuova erbaccia spuntata sul marciapiede. Una volta è sicura di aver visto una pozzanghera con la forma del viso di Jimi Hendrix, uguale sputata. Saluta la signora piegata a metà dagli anni che passa con le buste della spesa e si chiede come si faccia a pensare di progettare una casa con quei terrazzini chiusi, tanto brutti e dove non si può mettere neanche una pianta. A un certo punto, forse inconsciamente stanca del troppo aspettare, si ridesta dai suoi pensieri. Alza gli occhi e si ricorda, come ogni mattina, che non solo il semaforo è probabilmente spento, ma che quel pulsante con la plastica scolorita, sporca e logora, ormai diventata color fiat uno rossa del 1991, non funziona e non ha mai funzionato. Inutile dire che quella ragazza sono io.
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Alba livida

Postato il 12 Gennaio 2016 in Photo, Racconti
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San Miniato, Siena - 8.1.2016 - iPhone 6

Mac si alzò stiracchiandosi dopo l'ennesima notte di poco sonno, e come ogni mattina si diresse alla finestra. Guardò fuori, seguendo con lo sguardo i profili indistinti delle case fino a quel grosso grattacielo che non gli era mai piaciuto. Aveva sempre pensato che, già dal giorno in cui l'avevano terminato, sembrasse lo scheletro di un enorme mostro, il monumento funebre a un altro pezzo di verde strappato al suo quartiere. L'unica cosa che gli piaceva di quel grattacielo era la signora Vanda, che lo salutava con la mano ogni mattina quando usciva per stendere il bucato, mentre lui se ne stava in terrazza a lavorare al portatile. Chissà che fine aveva fatto, povera Vanda. Darma uscì in quel momento dalla camera, si avvicinò a lui e lo abbracciò, destandolo dai suoi pensieri. "Vedrai che domani sarà una bella giornata", gli disse, "e io e te usciremo con la moto e andremo a fare un picnic in quel posto che ci piace tanto, vicino al laghetto". Mac si voltò, la strinse a sé e le diede un bacio sulla fronte. "Vai a vestirti piccola, che oggi dobbiamo uscire". Mentre Darma tornava verso la camera, Mac la seguì con lo sguardo, e la maglietta che lasciava intravedere la parte inferiore delle sue natiche così rotonde gli strappò un sorriso, ricordandogli ancora una volta del perché quel giorno di tre anni prima aveva rischiato di fare a botte per invitarla a prendere un drink. Poi tornò a guardare fuori, il suo sguardo si soffermò su quell'autobus parcheggiato sotto casa e pensò a quando di prima mattina le persone affollavano la pensilina, con gli occhi assonnati immersi nel cellulare e l'umore nero come il petrolio. Il petrolio che due anni prima aveva scatenato la guerra. All'inizio tutti avevano pensato che sarebbe finita presto, che si sarebbero trovate altre fonti, che in un modo o nell'altro si sarebbe fatto. Ma poi le cose erano degenerate, i paesi in via di sviluppo avevano reclamato il loro diritto all'oro nero ormai sempre più scarso, e nell'arco di pochi mesi tutto era diventato un casino mondiale. Invece di impegnarsi per trovare nuove fonti di energia, i governi avevano iniziato a impiegare tutti i ricercatori nella costruzione di nuove armi, che divennero ogni mese più pericolose e crudeli. Ora ad aspettare quell'autobus, fermo lì ormai da troppo tempo, non c'era più nessuno. Era diventato uno scheletro anche lui, l'altra metà di in un'ironica, macabra accoppiata col grattacielo. Con un forte strattone Mac avviò il generatore, aprì il computer e dette un ultimo veloce sguardo alle mappe che era riuscito a scaricare qualche mese prima che la rete saltasse del tutto. "Allora, dove andiamo di bello?" chiese Darma. "Distretto 2, incrocio nord, dovrebbe esserci rimasto ancora qualcosa in quel magazzino". Darma strinse le cinghie dello zaino al suo petto sempre più magro, si aggiustò gli stivali, indossarono le maschere, e insieme uscirono nella nebbia tossica.
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Dei gamberi a colazione

Postato il 17 Dicembre 2015 in Just Me, Myself and I
Qualcuno mi diceva sempre che io ero una tortura. Avevo grandi, enormi potenzialità, lo spirito giusto per fare tutto, per andare sempre più in alto, sempre più vicina al limite per poi superarlo, ma inesorabilmente facevo come i gamberi, tre passi avanti e due indietro. E questo era sfiancante. Ogni volta a sbattere la testa negli stessi errori e ricominciare da capo come se non non avessi imparato niente, o mi sforzassi ogni volta di farne di nuovi. Mi diceva che non ero costante e spesso incoerente, che avevo la dote di affrontare le cose difficili con leggerezza, la stessa leggerezza che usavo però anche per le cose importanti, quelle serie sul serio. Mi diceva che avevo una gran testa ma che la usavo solo per rincorrere le farfalle, perdendo inutilmente tempo prezioso. Mi diceva che ero una barca alla deriva perennemente indecisa su quale rotta prendere, e che nonostante tutta la sua buona volontà non avrei mai imparato a navigare da sola, ma a una certo punto, se fossi stata fortunata, mi sarei fatta "abbordare" da una nave più grossa e lasciata trascinare silenziosa. Nel peggiore dei casi, sarei naufragata su uno scoglio. Avevo vent'anni e l'universo mi sembrava meraviglioso e tutto da esplorare. Sono passati tanti anni da allora e mano a mano che il tempo passa si fanno chiare tante cose di me che prima erano avvolte nella nebbia -era ora, mi si dirà-. La rabbia repressa, l'ostilità, e quella voglia mai sedata di andare oltre. Non sono naufragata, e forse non sarei mai riuscita a veleggiare da sola. Chi nasce tondo non muore quadrato, la solitudine non è una cosa che mi appartiene e a volte è bene prendere coscienza dei propri limiti, e non per forza, per quanto estremamente facile, non essere soli significa essere male accompagnati. Ho trovato un vascello sicuro che mi accompagna nella mia strada, ma io non me ne resto silenziosa. Navigare in due non è sempre facile, a volte si fa veloce, a volte meno, e per quanto a volte possa sembrare faticoso, in certi momenti bisogna fermarsi e aspettare l'altro. La cosa importante, sebbene il tempo sia prezioso, non è quanto dura il viaggio, ma la consapevolezza di ciò che si vuole e di dove si sta andando, e per quante cose ogni giorno cerchino di distrarci, non dimenticare mai l'obiettivo. Nonostante tutto però, c'è una sensazione che purtroppo rimane costante in me, ed è quella del sapore dolceamaro della merda mischiata coi biscottini. Per quanto io mi sforzi di nuotare verso l'alto, c'è sempre qualcuno, direttamente o indirettamente, che tenta di trascinarmi sul fondo. Tutti abbiamo i nostri fantasmi, i nostri mostri, o semplicemente persone che tendono quotidianamente a metterci i bastoni tra le ruote. E quello che ancora non ho imparato a fare, nonostante gli sforzi, tutte le musate prese, le incazzature e le fregature, è quella di fare tabula rasa di queste persone. Virgilio diceva a Dante, passando di fronte al girone degli ignavi "Non ti curar di loro, ma guarda e passa". E forse mai frase fu più azzeccata. Ed è qui che il gambero fa una brutta fine. L'ha già fatta da un po' in effetti, ma ora è il momento di mangiarselo a colazione, stendere il passo e sfondare ogni porta finché non avrò ottenuto ciò che mi spetta. Se l'universo si ostina ad essermi ostile, io lo sarò di più.
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